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Leggere una fotografia (parte 1)
Leggere una fotografia. Se si potesse stilare una classifica delle dieci domande che un fotoamatore si pone più spesso, “come si legge una fotografia” sarebbe forse fra le prime cinque. Chiariamo subito che in una libreria ben fornita troverete più di un testo sull’argomento e prendiamo per buono il fatto che una larga parte della lettura di un’immagine sarà costituita da elementi soggettivi.
Quindi, in pratica, possiamo “imparare” a leggere una fotografia? Certo che si. Così come possiamo imparare a guidare un’automobile quando all’inizio ci sembra difficile. Dobbiamo acquisire una serie di conoscenze che ci aiuteranno a muoverci con lo sguardo all’interno del fotogramma per scovare e decifrare quello che è il messaggio insito nella foto che stiamo guardando.
Quest’ultima frase presuppone che in ogni foto vi sia un messaggio. E non è sempre vero. Parte della capacità di leggere una fotografia sta proprio nel riconoscere quando questa ha qualcosa da trasmettere, e quindi quale messaggio il fotografo ha voluto lasciare, e quando invece essa sia priva di qualsiasi chiave di lettura.
In questa serie di articoli cercheremo di analizzare gli aspetti fondamentali della lettura di un’immagine. Faremo riferimento ad aspetti più tradizionali ed universalmente riconosciuti, e ci lasceremo andare anche ad un linguaggio ed un simbolismo più “profano”. Attireremo le ire dei puristi che criticheranno in particolare l’approccio terra-terra. E questo ci fa molto piacere dato che – non ci stancheremo mai di dirlo – la Fotografia non sarà per “tutti”, ma con l’approccio giusto è di sicuro un linguaggio per “molti”.
Questo primo articolo sarà solo un’introduzione e ad esso seguiranno entro breve altri articoli che tratteranno la lettura dell’immagine fotografica da un punto di vista pratico. Se fossimo interessati solo all’aspetto purista, potremmo consigliarvi alcuni ottimi testi, un paio di stampo universitario, mediante i quali potreste imparare moltissima terminologia e magari, con l’impegno che si richiede ad un trattato filosofico, riuscireste a leggere una fotografia. Questo approccio NON È errato. Anzi. Limitiamoci a dire che il purista sta alla lettura della foto come un sommelier sta alla degustazione di un vino. Mi piace fare l’esempio seguente perché secondo me rispecchia in modo chiaro il tipo di problema che andremo ad affrontare.
Un bravo sommelier è una persona con una “cultura del vino”. Una persona che saprà elencarvi le caratteristiche di una precisa bottiglia, di una precisa annata, saprà con quali cibi si sposa e con quale bicchiere tale vino deve essere consumato. Vediamo un esempio copiato dal web :
“Vino affascinante, note fresche sia al naso che in bocca nonostante i cinque anni d’età, molto complesso grazie anche alla totale botritizzazione delle uve, note floreali seguite da sentori di miele, un po’ di tannicità sottolineata anche dall’ottimo equilibrio zucchero-acidità."
Nessuno fra i presenti avrà qualcosa da eccepire a quanto detto poco sopra. Ma sia chiaro: io non sono un grande bevitore di vino, e la “lettura” che mi è stata fatta poco sopra non mi ha aiutato in alcun modo a chiarirmi le idee sul vino in questione. Questo perché? Perché il linguaggio utilizzato dal sommelier era per “addetti ai lavori”. Gli intenditori di vini fra di voi avranno intuito subito il significato di “note fresche sia al naso che in bocca” ma questa immagine sfuggirà al restante 90% dei lettori di questo blog. Ed è proprio per questo motivo che AltraOttica è per approccio più “umano” alla lettura fotografica. Filippo Crea, il critico della rivista Tutti Fotografi, ci piace anche per questo suo approccio. In un numero della rivista (Marzo 2009) dichiarava quanto segue:
Una volta ho scritto qualcosa di quei colti signori che scrivono di fotografia con un gergo specialissimo che neanche loro riescono a decodificare. Con grande danno per la fotografia. Stanotte mi sono imbattuto in “…l’insieme del suo lavoro annuncia un viatico che si allunga tra l’utopia possibile e la grazia dell’apocalisse… deriva dal sogno teurgico, qabbalico o chassidico di Mamoide (o della mistica ebraica…“.
Filippo Crea conclude dicendo che, dato quanto sopra, lui smetterà di usare termini come “pane e formaggio” o “fotografia spelacchiata”. Noi ci auguriamo l’esatto contrario, e anzi cercheremo di allinearci il più possibile al suo stile, perfetto per far comprendere a chiunque la nostra critica fotografica. Ciò detto ricordiamoci che il critico deve attingere, quando necessario, alle sue conoscenze in ogni campo, per giudicare in modo efficace un’immagine, e più queste conoscenze saranno vaste, e più la critica risulterà brillante ed adeguata; anche usando termini come “pane e formaggio”, se la situazione dovesse richiederlo.
A tal proposito vogliamo ricordare, chiudendo la parentesi sul linguaggio da adottare durante la critica, quanto scritto da Luigi Franco Malizia in un vecchio numero de “Il Fotoamatore” (il vecchio nome della rivista mensile degli abbonati FIAF, ora chiamato Foto IT):
Diciamo, allora, che una corretta, seria, perspicace critica fotografica debba, sì, e all’occorrenza, avvalersi di tutto quanto fa testo nel vastissimo panorama della conoscenza e del sapere.
Solo in questo caso, infatti, vengono a determinarsi le ideali condizioni per la lettura globale di un elaborato, che certamente non può prescindere da tutti gli importanti riferimenti di ordine socio-culturale e storico, preposti alla sua corretta valutazione.
Ma è anche vero che conoscenza e sapere trovano una giusta legittimazione solo se impegnate a centrare, come si suoi dire, il cuore del problema, che non è, appunto, la compiacente e immotivata enfatizzazione del “non significante”, e via di lì; costi quel che costi, anche la non riscossa, ambita, gratitudine della “controparte”.
Il breve discorso su Fillippo Crea fatto nella pagina precedente ci aiuta ad introdurre un problema fondamentale. La critica cruda e sincera sembra essere la strada migliore da percorrere. Ma molti, ad esempio nei club fotografici, si trovano in una situazione imbarazzante. Spaventare i nuovi iscritti con una critica feroce o adularli per fare in modo che non si offendano e che, quindi, continuino a frequentare? Per nostra fortuna chi il critico lo fa di mestiere (si fa per dire) ci toglie ogni dubbio. Come posso essere sincero senza risultare offensivo?
Non c’è un modo. Se si diluiscono i concetti e si cercano dei modi gentili di esprimere una critica, non riusciremo ad essere sinceri, rischiando nella migliore delle ipotesi di far passare grossolani errori per “piccoli difetti secondari”.
Questo fa male alla crescita di ogni artista. Lo illude di aver raggiunto un risultato quando in realtà questo non è stato nemmeno sfiorato. E ciò non lo spinge a migliorare. Certo, il commento deve mantenere un fine costruttivo. Quindi dire: “questa foto fa schifo” e fermarsi, non serve ne a chi critica ne tantomeno al fotografo oggetto della critica.
Questi due ultimi elementi formano, insieme al soggetto ritratto nella foto (sia esso un oggetto, una persona, un paesaggio…) i tre elementi presenti in una fotografia quando questa viene criticata:
- Il soggetto che guarda (lo spettatore)
- il soggetto che ha scattato la foto (l’autore)
- il soggetto ritratto nell’immagine
Quando voi osservate una fotografia, e quindi diventate spettatori, state già prendendo parte ad un processo di lettura fotografica anche se forse non ve ne rendete conto. È vero che per comprendere la complessità o l’essenzialità di uno scatto serve un minimo di cultura fotografica, ma è altrettanto vero che chiunque si trovi ad essere spettatore di un’immagine ne compie inconsciamente una lettura. Nei prossimi articoli cerchermo di spiegare nel modo più chiaro possibile come i tre elementi di cui sopra concorrano all’analisi e alla critica di una fotografia, sia per quanto concerne la parte “tecnica”, sia per quella più intima ed emotiva.